I corpi non si aggiustano, si curano. Esistiamo nel tempo e nello spazio, mutando, donando senso e creando significati. Essendo un processo, le logiche di osservazione, valutazione e intervento non possono essere meccanicamente lineari ma rispondono all’approccio sistemico e narrativo, in cui emergono funzionamenti non riducibili alla somma delle parti e situati nel trascorrere del tempo.. In questa prospettiva teorica, gli assunti di Mente e Corpo decadono: non siamo computer con dei software, né corpi sulla scena da aggiustare come automi. Il punto di vista più coerente è nell’intercorporeità. Il soggetto è visibile solo all’interno delle relazioni che genera, di cui è parte.
La prima distinzione fenomenologica quando si parla di corpo è tra Korper e Leib. Il primo è il corpo anatomico, quello che si studia sui libri; il secondo è il cosiddetto corpo_mondo. Nei processi di cura, lo spazio tra il corpo del curante e del curato diventa un campo, un mondo nuovo. Tale corpo può essere allargato a tutto l’insieme dei curanti. Quel luogo di significato è dove avvengono atti condivisi, ma anche immagini, suoni, idee, proposte e motivazioni. In una prospettiva embodied, tale zona è ricca del vissuto corporeo soggettivo narrato al fine di quel gesto, idea proposta, esercizio, eccetera. Se non è così, la prospettiva rimane soggetto-oggetto dove viene esaltata la tecnica e l’abuso. L’efficienza senza relazione è potere che interviene e non coopera, non condivide ma separa. La salute non è qualità ma simulacro. La cura è un processo morale che richiede la messa in gioco del curante, che deve conoscere sì le tecniche ma soprattutto se stesso, mettendosi in una posizione di crescita continua, senza illudersi di sapere a priori chi è e cosa fa. Questa posizione etica è determinata da una visione di mondo precisa, che è relazionale, sistemica, incarnata – dove il potere è utilizzato per migliorare la qualità di singoli e della comunità.
Essere individui non significa essere separati, ma indivisibili. All’aumentare della nostra separazione, aumenta l’idea di avere una mente, di averla separata da un corpo, di avere questa mente chiusa nella scatola cranica e di farla corrispondere al nostro pensiero, in particolar modo quello che crediamo razionale. Questa prospettiva scissa e dissociata è una visione malata e che porta ad azioni, verso noi stessi e gli altri, che non creano nè qualità né salute. La mente è tra di noi, ciascun soggetto ne ha riflesso anche in una sensazione interna, ma è parziale. Dobbiamo provare a trovare cosa osservare insieme, perché abbia senso e significato. Osservare, valutare e agire insieme porta a qualità e salute. Un corpo separato dagli altri è un Korper, è morto.
Dove sono le parole prima di pronunciarle? Sono chiuse quando sono dentro e poi si aprono, oppure il contrario? Chi ascolta le parole che diciamo, che escono dal nostro corpo? Entrano nel corpo di chi le ascolta? Quando ascoltiamo le parole altrui, si inscrivono in noi? E dove esattamente? Chi le cancella quelle inutili?
Che rapporto c’è tra occupare uno spaziotempo con il nostro corpo e le parole che ne derivano? Quali esperienze di sicurezza e insicurezza che il nostro corpo vive, riescono a diventare parole? Quali esperienze, invece, rimangono corpo? Il modo di pronunciare la parola, è il tono che si instaura tra corpo e corpo?
Il corpo che ero e il corpo che sono sanno confrontarsi anche senza parole?
Cosa significa muoversi? Ogni movimento assume un significato particolare? Riconosciamo il movimento come un bisogno fondamentale, a pari di bere e mangiare? Cosa succede quando non ci muoviamo? Cosa succede se ci viene impedito da altri a muoverci? Muoversi bene è la stessa cosa che avere un corpo performante? Quali parti del mio corpo sento muoversi da sole? Quali parti del corpo muovo per volontà ma in modo automatico? La volontà di muoverci verso un oggetto viene dall’interno o dall’oggetto? Ci sono ambienti che ci aiutano a muoverci meglio? Che rapporto c’è tra dolore e movimento? Che rapporto c’è tra piacere e movimento? Il movimento che il nostro corpo esegue insieme al movimento di altri corpi, che effetto ci fa? Che rapporto c’è tra movimento e sensazione? Che rapporto c’è tra movimento e percezione? Il movimento è alla base di metafore che strutturano pensieri per il sé narrativo? Ci troviamo a muovere altre persone? Che effetto ci fa muovere gli altri? Cosa comunica il nostro movimento? A chi comunica il nostro movimento? Dove non arriviamo con il movimento, cosa utilizziamo?
S. Sorride. Conosce il proprio nome e cognome ma se le chiedi dove abita o la sua data di nascita, comincia a vagare con lo sguardo, si adombra e non sorride più. Quindi la distraggo per non farle pesare il vuoto, per non farmi pesare il vuoto.
Nel continuo scambio comunicativo devo mettermi ad un livello sempre diverso, mi ascolto e faccio in modo che la mia postura sia in accoglimento, il tono della voce morbido; lo sguardo è il mio punto di contatto- sento che posso toccare e anche questo va fatto con la giusta forza, tenere e non stringere. In tasca, ho una storia pronta, coerente con lo spazio che circonda me e l’altro. Il nostro spazio. Una rete di salvezza quando si scivola in certi dirupi.
Solitamente il fisioterapista si occupa di chi si muove male, poco o nulla. Non è raro però trovarsi difronte a chi si muove molto o addirittura troppo. Il movimento può essere finalizzato ma organizzato male, organizzato bene ma non coordinato e tutte le permutazioni che vi vengono in mente giocando tra intenzione – finalità – organizzazione – coordinazione – forza – resistenza. Ci sono persone che si muovono molto bene ma senza alcuna intenzione cosciente – corticale. Il wandering è un sintomo di alcune demenze senili, tipo l’Alzheimer. È un bisogno incessante di muoversi – anzi no di spostarsi, di vagare. Le cause sconosciute. C’è un tempo per indagare e studiare ma nella realtà quotidiana osserviamo, valutiamo e interveniamo sul piano dei fenomeni.
bisogna decidere cosa è un fenomeno : tutto ciò che mi arriva ai sensi.
Possiamo immaginare che ogni comportamento sia un indice e una forma di comunicazione. Comportamenti estremi -comunicazioni estreme. C’è sempre un senso, ma ad oggi non abbiamo il codice per tradurre ogni cosa. Se non ho una tabella per il mondo devo procedere per immagini. Spesso in queste persone c’è l’incapacità di esplicitare un bisogno primario ( stimolo della fame, della sete, di dover evacuare etc…) e la necessità di compiere azioni ripetitive – spesso sono affaccendate. Tanto che l’affacendamento può essere stimolato per dminuire il rischio che la persona si perda.
M. ha lo stesso sintomo di S. Anche lei vaga. Però esprime ancora verbalmente i suoi bisogni.
– Dov’è il gatto? – mi chiede. Per un paio di secondi la fisso e penso, ha avuto un’allucinazione e sono pronto ad assecondarla, sto quasi per dire : è andato di là. Per fortuna, M stessa continua dicendo – devo andare in bagno. Riesco a fare uno più uno e ricordo che la sua camera ha un gatto come promemoria. Strategia che il servizio educativo e quello psicologico hanno trovato per indicare la sua camera. M. vaga ed entra nei bagni di chiunque, creandosi non poche inimicizie e non solo. -Venga con me, è qui il gatto… Mi sorride e mi ringrazia e io sono costernato e vago per cercare qualcuno con cui condividere la quasi caduta. Come quando si cammina e si scivola ma non si cade.
S. non parla – è muticica – sa parlare e se incalzata nel ritmo e conosce la risposta ha le corde vocali funzionanti e sicuramente l’area di Broca intatta. Memoria biografica veramente ai minimi termini, direi più anagrafica, meno. Nome e Cognome. Sa come si chiama ma non sa chi è.
Ed io chi sono? Chi sono per lei?
Semplicmente non si aggrappa al mondo con le parole, non descrive, non chiede, non modifica. Lei cerca e basta. Chissà cosa. Chissà chi.
Bisogna iniziare a descrivere la nostra storia, il mio essere lì con lei. La mia professione con il suo problema, il mio nome con il suo nome, chiunque lei sia con chiunque io sia. Chiunque Noi
La osservo e visto che cammina e non poco, mi domando se rischia di cadere non solo di perdersi. Il pericolo di fuga – anche se il termine fuga presuppone un’intenzionalità – è elevato. Il pericolo di cadere e farsi male o morire, pure.
Quando osservo il comportamento dei pazienti con questo sintomo il mio pensiero scartabella tre titpologie di informazioni. Uno. Mi identifico. Qualcosa in me mi fa chiedere, quando vago? Quando sento il bisogno di tornare? Non tanto di andare ma di tornare- che sensazione provo quando mi perdo? Due. Rischia di cadere? Cammina strisciando i piedi? Ha abbastanza forza? e tutte le domande della Scala Tinetti mi scorrono nel cervello. Tre. Dove si trova la paziente? In quale ambiente?
Senza farmi notare cerco di aprire la finestra, mi assicuro che non si apra; controllo che le uscite di sicurezza siano allarmate, la porta REI di accesso al Nucleo sia chiusa.
Il tastierino con i numeri si illumini di blu.
Ciascun professionista dovrebbe assicurarsi della incolumità del paziente – anche se non c’è una ceck list o procedura.
Tra la storia di come si valuta il Rischio Caduta e la Procedura Paziente Scomparso S ed M sorridono. A volte si adombrano. Sicuramente non capiscono del tutto o poco del mio vagare, del mio perdermi, del mio rischio di cadere. Del mio voler tornare ma anche andare.
S. l’ho accompagnata io in Nucleo. il Nucleo di accoglienza , parole gentili per descrivere l’isolamento – o meglio la quarantena per i nuovi ospiti in struttura.
Sono lì alla porta di entrata. Il figlio l’accompagna. Mi presento ma non mi risponde. Sorrido ma è terrorizzata. Non ho ancora storie per rinfrancarla. La prendo. Ho paura di stringerla. Non so se cammina bene. Cerco di girarla verso il figlio perché si salutino. Mi sento in mezzo ad un privato non mio. Mi sento necessario e di troppo allo stesso tempo.
– Non posso salire? Mi chiede il figlio. – Mi dispiace no. Faccio appello alla mia professione e chiedo se è caduta negli ultimi tre mesi, sì mi dice, forse ha un po’ male alla caviglia.
S. sente tutto, le emozioni le scorrono attraverso e non ha parole.
e neppure io
Così ho deciso da qualche parte del mio essere che avrei scritto, anche di lei. Anche di Noi
Nessun tempo è quello giusto. Non c’è attesa che valga, la vita domina e noi siamo saette di nulla che attraversano l’ordine pulsante della Natura. Lasciamo tracce e se respiriamo insieme al bosco possiamo vedere le tracce altrui. Siamo responsabili di calpestare le foglie giuste, di raccogliere i rami secchi, di trovarci insieme a chi attraversa, ciascuno per il proprio sentiero, questo insistere.
C’è il fuoco che ci attende. Acceso da qualcuno prima di noi. Dobbiamo mantenerlo acceso portando la nostra storia. Solo raccontando possiamo dire di essere anche noi Vita. Il nostro ascolto e la nostra parola sono l’orecchio e la voce del Bosco.